Oggi, 23 maggio, è la Giornata della Legalità. E si ricorda ciò che accadde alle 17 e 56 minuti del 23 maggio 1992 quando i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata, registrarono una forte onda d’urto. A provocarla non era stato un terremoto, ma l’esplosione potentissima che uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della loro scorta. Giovanni Falcone era stato l’esponente principale del pool di magistrati che a partire dal 1986, sotto la guida di Antonio Caponnetto, aveva istruito il cosiddetto maxiprocesso contro Cosa nostra. Grazie alla tenacia investigativa di Falcone e del suo amico e collega Paolo Borsellino, e grazie anche alle informazioni fornite da collaboratori di giustizia del calibro di Tommaso Buscetta, il pool aveva portato in giudizio quasi cinquecento mafiosi. Per celebrare il processo era stato necessario costruire una speciale aula blindata a ridosso dell’Ucciardone, il carcere di Palermo. Mai infatti erano stati condotti alla sbarra così tanti mafiosi, e mai per rispondere della stessa accusa: far parte dell’associazione segreta criminale nota come Cosa nostra. Per decenni i mafiosi erano stati portati in tribunale, e quasi sempre assolti, per singoli episodi. Ora, con Falcone, la giustizia disponeva di un interprete formidabile del fenomeno mafioso nel suo insieme, dalla sua strategia al suo lessico. Un giudice che disponeva di un metodo accurato e preciso e che per primo aveva compreso a fondo i traffici internazionali di Cosa nostra, inchiodando i boss alle loro responsabilità. Quel lavoro era costato anni di sudore e sangue per i colleghi di Falcone e gli investigatori, tra cui il commissario Boris Giuliano della squadra mobile di Palermo, assassinato nel 1979.dai mafiosi. Il capo indiscusso del potere criminale combattuto da Falcone era l’allora latitante Totò Riina, ex contadino di Corleone analfabeta ma scaltro, che governava la “cupola” (il vertice dei boss siciliani) con mano di ferro ed emerso come leader dopo avere assassinato tutti i capi delle cosche rivali in una lunga guerra di mafia. Nonostante le condanne (in contumacia) in primo e in secondo grado, Riina aveva conservato i nervi saldi. Aveva promesso agli affiliati che tutto si sarebbe risolto in Cassazione, grazie agli agganci che vantava con la politica. Quando però la Cassazione ratificò gli ergastoli, al boss di Corleone risultò evidente che i suoi appoggi politici non erano più sufficienti. Ed ecco un altro attentato. Cinquanta candelotti di dinamite furono nascosti tra gli scogli vicino alla villa al mare all’Addaura, non lontano da Palermo, che il magistrato aveva affittato per l’estate. L’intenzione era farli esplodere non appena Falcone si fosse concesso un bagno. L’attentato fallì soltanto perché il sicario, il giovane figlio di un boss legato ai Corleonesi, perse il telecomando in mare. Falcone comprese immediatamente che non si trattava soltanto di una vendetta per il maxiprocesso. Oggi Falcone continua a vivere grazie all’impegno di molte associazioni e degli istituti scolastici che organizzano le giornate della Legalità nel suo ricordo e in quello di Paolo Borsellino.
Salvatore Giacalone