Quando il tempo degli incontri recuperati ripresenta l’evento, è anche della soggettività degli attori che si parla e si racconta; è il ‘si’ che transita attraverso la voce e le immagini dei luoghi che si sono prestati per la mediazione dei linguaggi che dicono/dipingono un esser-ci culturale … e non solo (un’azione fluente che insieme è eccedenza e manifestazione polimorfica e polisemica). Nel caso di riferimento è il ri-trovarsi di due identità – Giuseppe Biati e Giacomo Cuttone – nella circostanza di una ri-evocazione incrociata sul “Carnevale di Livemmo”. Ognuno lo fa tessendo con il proprio linguaggio. Con lo stile della scrittura, Giuseppe Biati. Con l’arte del pittore, Giacomo Cuttone. Una tessitura che filtra e mescola le due soggettività che, così, lasciano parlare anche ciò che li trascende. Sta per essere pubblicato, infatti, il libro di Giuseppe Biati “Livemmo e il suo carnevale” (Comune di Pertica Alta). Il libro che ne muove l’ambiente tra “riti, miti, storia, tradizioni e lavoro”.
Giuseppe Biati (bresciano di Belprato) è stato docente di lettere, preside e dirigente scolastico. Si occupa di ricerca storica, l’ultima sua pubblicazione per le Edizioni Valle Sabbia (2019) s’intitola “Dalla Val Sabbia a Venezia – La straordinaria vicenda dei fratelli Bontempelli Dal Calice”.
Negli anni Ottanta, quando Biati è stato preside della Scuola media di Collio VT, ha avuto come docente di Arte e Immagine il pittore siciliano Giacomo Cuttone. Questo rapporto professionale e di amicizia si concretizza con la presentazione da parte di Biati della mostra che Cuttone, insieme con il pittore casertano Silvano Russo, nel 1987, ha tenuto presso la Galleria AAB/Sala del Torchio di Brescia.
Ha distanza di tanti anni, i due si rincontrano (anche se virtualmente). Il rendez-vous fa nascere una nuova collaborazione. Una cooperazione come un gemellaggio “di amicizie sincere non disgiunte da amore per l’arte e la letteratura” è la definizione che ne dà lo stesso Biati. Amicizia continua Biati – come “espressione di persone che dell’umiltà dei propri animi trovano importante la ricchezza della coesione e della condivisione di comuni ideali”. Ne verrà fuori la pubblicazione di un libro (sul Carnevale di Livemmo) in cui conviveranno linguaggio della scrittura e linguaggio pittorico. Il libro (ad inizio di capitolo e a pagina intera), infatti, ospiterà tre grafiche di Giacomo Cuttone.
Ma veniamo al Carnevale di Livemmo. Lo facciamo con le parole – scritte nel 2017 per www.lepertiche.com – dell’Autore:
Nelle comunità agricole, come la Pertica, dopo la specifica festa di S. Antonio abate, che termina generalmente con l’inizio della Quaresima, il gruppo abbandona la norma, cioè il quotidiano, decretando un periodo di “caos”, di mondo alla rovescia, nel quale il buffone può diventare re e viceversa, invertendo così l’ordine sociale costituito. Decade ogni tipo di gerarchia. Attraverso il mascheramento, arriva il Carnevale: si esce dal quotidiano, ci si disfa del proprio ruolo sociale (soprattutto se basso) e, negando la propria identità a sé stessi, si può diventare qualsiasi altro. Ci si inoltra nel sovvertimento, nell’eccesso, nella lotta o rivalità tra entità e/o ceti diversi, quasi opposti: bene-male, bello-brutto, sacro-profano, maschio-femmina, contadino-allevatore, padrone-servo, ecc. A Livemmo questa interpretazione della vita raggiunge, nel suo Carnevale, momenti di controllato delirio nelle tre maschere fondamentali, (ma semplicistica ne è tale riduzione): la “vècia del val”, l’“omahì dal zerlo”, il “doppio”.
Esse portano in campo, anzi in piazza, la ribellione ad uno “status” generazionale, a classi sociali rese chiuse, forse non istituzionalmente, ma da una endemica povertà e conseguente incapacità situazionale a risollevarsi, a condizioni servili umili – quale quella femminile – e di sottomissione totale. L’uomo privilegiato, la donna asservita; l’uno dedito alla vita sociale di ritrovo, l’altra rifugiata tra le pareti domestiche; il primo gestore del proprio patrimonio sia umano che pecuniario, la seconda dedita ai lavori dei campi, quelli più noiosi e trascurati dal maschio. Da qui alla “ribellione” nei giorni carnevaleschi il passo è breve; poi si rientra ciclicamente nel silenzio, nel quasi tutto prestabilito e pattuito, come succede e succedeva in comunità ad economia chiusa, curtense (e non). Accanto a queste tre maschere – date come fondamentali – pullulano una serie di personaggi della vita quotidiana, ciarliera e bigotta: la vecchia e il vecchio in chiacchierato e rinnovato amore, il contadino nei tradizionali abiti di grezzo fustagno, le vicende notturne di persone che pongono all’attenzione la vivace quotidianità arricchita di sotterfugi, gabbature, rivalse. Presenza non meno scontata quella del diavolo, tutto rosso, cornuto e munito di forca. A parte le leggende locali che ne dichiarano la sua nascosta presenza nei balli licenziosi, travestito da prestante giovanotto con i piedi caprini, accompagnato da avvenenti fanciulle, risulta essere il contraltare alla vita di ogni giorno, vita intrecciata di crudi risvolti lavorativi e di inesauribili espedienti per campare la giornata. E così il carnevale, con tutto il suo gruppo di “comedie humaine”, si snoda, a suon di zufoli e di fisarmonica, di via in via, di piazzetta in piazzetta, raccogliendo, dopo il ballo, nella momentanea frenesia, quanto la gente può offrire in termini di beni immediatamente fruibili: vino, formaggio, salame, denaro. Il tutto deve servire ad alimentare la grande cena di carnevale, una volta svestiti dalle maschere di rappresentazione, la sera, tutti in ebbrezza sfrenata e, naturalmente, tutti maschi.
In conclusione, e solo per un rilievo non trascurabile, l’incrociarsi dei linguaggi è sempre una produzione di nuova e opportuna significanza. È il campo del senso, secondo chi scrive, che simboleggia e cerca di rappresentare la vita e l’ambiente storico-culturale tra la tradizione, il presente e la traduzione che ne fanno i linguaggi (nel caso, la scrittura e la pittura). Come dire, pescando qualche grumo linguistico di Biati, che le maschere “portano in campo, anzi in piazza, la ribellione […] generazionale” attraverso il suono delle parole e delle immagini. Le maschere, infatti, non sono solo le “masque” che nascondono svelando. Esse sono pure suono: sono “parsonne” (squillanti). Sono i rivelatori delle soggettività storiche che ‘si’ sono ritrovate.
Antonino Contiliano